Anche quando sono solo, io lo so che non sono solo.
Lo diceva Lorenzo
Cherubini, in arte Jovanotti, lo dice la giovane e indifesa protagonista di Never
Alone. Anzi, Kisima Innitchuna, perché luogo, lingua e storia riguardano un
popolo, quello eschimese, che vive nelle terre più fredde e inospitali
dell’Alaska e che ancora oggi è legato a tradizioni e attività che si
tramandano da numerose generazioni. Le recensioni lette nei mesi scorsi sono un
mix di pareri differenti, che si dividono sostanzialmente tra chi ha amato il
gioco e chi non ne è rimasto particolarmente colpito. Il metacritic su
PlayStation 4, console sulla quale l’ho giocato, si attesta su un non troppo
esaltante 73. Un gioco senza infamia e senza lode. Quindi perché giocarci
considerando il mio ormai inquietante backlog? Nemmeno io ho una risposta
razionale sulle motivazioni che mi hanno spinto a giocarlo, ma sono contento di
aver fatto questa scelta.
Parto dal presupposto che non ho comprato Never
Alone. Me lo sono ritrovato tra i giochi del mese offerti da Sony agli abbonati
al servizio PS Plus. E solitamente scarico tutto, solo dopo decido cosa tenere
sull’hard disk e cosa scartare. Mal che vada poi posso riscaricare nei mesi o
anni successivi. Però era uno di quei titoli che più volte ho pensato di
acquistare. Tolto il dubbio grazie alla gratuità gentilmente concessa da Sony,
ho finalmente pensato di iniziarlo (e finirlo) durante il fine settimana.
Immagino che vi starete chiedendo che cosa ne penso. Come videogioco, bisogna
essere sinceri, vale poco. Non c’è moltissimo a livello contenutistico, si
finisce in un pomeriggio e a distanza di alcuni mesi dall’uscita permangono
alcuni bug dovuti a collisioni che potrei definire approssimative. Ma gli anni
in cui il videogioco deve essere solo gioco sono finiti da un pezzo. Heavy Rain
e The Walking Dead sono lì a ricordarcelo. Così come ce lo ricorda Brothers: A
Tale of Two Sons, che ho recensito su queste
pagine proprio pochi mesi fa. Certo, sempre di più si sta vivendo un
ritorno al passato e soprattutto il gameplay sta ritornando a vestire un ruolo
fondamentale all’interno del videogioco. Avviene in modo particolare nei giochi
indie, dove il racconto viene demandato a poche sparute righe di testo e bum…
via subito nel pieno dell’azione dopo pochi istanti.
Ma come già detto io ho trentasei anni e voglio
ridere, emozionarmi, gioire e soprattutto voglio godermi un mix sempre più
eterogeneo di titoli. Quindi ben venga Hotline Miami, che ho appena rigiocato
facendomi una speedrun
molto divertente ed appagante, basato su un gameplay frenetico e adrenalinico.
Ma ben venga anche Never Alone, tutto incentrato non solo su una storia, bensì
su un intero popolo. Un popolo che esiste davvero, ma del quale si sa molto
poco. In questo Never Alone non solo è un esperimento, è proprio una novità
assoluta nel mercato videoludico. Il fine educativo è palese e sembra quasi di
trovarsi di fronte ad un documentario interattivo. Certo, la storia non è
realistica, ma ciò che si vede non è campato per aria. C’è solo un’arma ed è la
bola, o kilamitautit in lingua inupiat. Ma è una delle armi più comuni per il
popolo eschimese, utilizzata per la cattura degli uccelli, soprattutto durante
le battute di caccia alla balena. Ci sono più nemici, partendo dal nanuk,
l’orso polare che rappresenta una delle più grandi minacce per i cacciatori che
si spingono tra i ghiacci. L’aurora boreale nelle leggende inupiat è in realtà
un insieme di spiriti di bambini che giocano nel cielo e così è rappresentata
in Never Alone. Ma il più grande e temibile nemico è il freddo, così come lo è
nella realtà. Il clima è tutt’altro che amico e solo una pelle di caribù ben
lavorata riesce nell’intento di resistere ad un clima così poco ospitale. C’è
tutto ciò che rappresenta un popolo: le leggende, le usanze, le abitudini. C’è
una piccola protagonista che non demorde di fronte alle difficoltà, come non
demorde un popolo che vive in terre desolate nelle quali la caccia e la pesca
sono l’unica fonte di sostentamento. C’è la volpe artica che accompagna la
bambina nel suo viaggio. Ci sono le insidie dei ghiacci, le balene e molto
altro. Tutto è al posto giusto, spiegato nel dettaglio all’interno di brevi
spezzoni filmati sbloccabili e attivabili nel corso del gioco e unendoli
insieme si compone un vero e proprio documentario sugli inupiat. Anche questo
deve e dovrà essere il videogioco, non solo uno svago, non solo un
divertimento, ma anche un modo per apprendere un messaggio più o meno profondo.
E ora vado a bermi un kuukpiak (per i profani della lingua, un caffè).
Bell'articolo, che invoglia a provare il prodotto. Meno male che non l'ho comprato il mese scorso... :-) Sicuramente sarà uno dei prossimi titoli che proverò. Da come lo descrivi mi pare il titolo giusto per "disintossicarmi" dalle decine di ore spese in esperienze faticose come Dying Light ed Ori e mi sembra di capire che si avvicini decisamente di più alla mia, tanto contestata, idea di indie. Ah, sappi che al solo leggere della tua seconda run ad Hotline Miami rabbrividisco... :-)
RispondiEliminaInteressante, ma resto frenato dalle incertezze del gameplay. Ottimo il tono educativo/documentaristico, ma resta pur sempre videogioco. D'altra parte, altri titoli sono riusciti bene nel doppio intento, vedi Valiant Hearts.
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