lunedì 13 aprile 2015



Anche quando sono solo, io lo so che non sono solo. Lo diceva Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, lo dice la giovane e indifesa protagonista di Never Alone. Anzi, Kisima Innitchuna, perché luogo, lingua e storia riguardano un popolo, quello eschimese, che vive nelle terre più fredde e inospitali dell’Alaska e che ancora oggi è legato a tradizioni e attività che si tramandano da numerose generazioni. Le recensioni lette nei mesi scorsi sono un mix di pareri differenti, che si dividono sostanzialmente tra chi ha amato il gioco e chi non ne è rimasto particolarmente colpito. Il metacritic su PlayStation 4, console sulla quale l’ho giocato, si attesta su un non troppo esaltante 73. Un gioco senza infamia e senza lode. Quindi perché giocarci considerando il mio ormai inquietante backlog? Nemmeno io ho una risposta razionale sulle motivazioni che mi hanno spinto a giocarlo, ma sono contento di aver fatto questa scelta.


Parto dal presupposto che non ho comprato Never Alone. Me lo sono ritrovato tra i giochi del mese offerti da Sony agli abbonati al servizio PS Plus. E solitamente scarico tutto, solo dopo decido cosa tenere sull’hard disk e cosa scartare. Mal che vada poi posso riscaricare nei mesi o anni successivi. Però era uno di quei titoli che più volte ho pensato di acquistare. Tolto il dubbio grazie alla gratuità gentilmente concessa da Sony, ho finalmente pensato di iniziarlo (e finirlo) durante il fine settimana. Immagino che vi starete chiedendo che cosa ne penso. Come videogioco, bisogna essere sinceri, vale poco. Non c’è moltissimo a livello contenutistico, si finisce in un pomeriggio e a distanza di alcuni mesi dall’uscita permangono alcuni bug dovuti a collisioni che potrei definire approssimative. Ma gli anni in cui il videogioco deve essere solo gioco sono finiti da un pezzo. Heavy Rain e The Walking Dead sono lì a ricordarcelo. Così come ce lo ricorda Brothers: A Tale of Two Sons, che ho recensito su queste pagine proprio pochi mesi fa. Certo, sempre di più si sta vivendo un ritorno al passato e soprattutto il gameplay sta ritornando a vestire un ruolo fondamentale all’interno del videogioco. Avviene in modo particolare nei giochi indie, dove il racconto viene demandato a poche sparute righe di testo e bum… via subito nel pieno dell’azione dopo pochi istanti.


Ma come già detto io ho trentasei anni e voglio ridere, emozionarmi, gioire e soprattutto voglio godermi un mix sempre più eterogeneo di titoli. Quindi ben venga Hotline Miami, che ho appena rigiocato facendomi una speedrun molto divertente ed appagante, basato su un gameplay frenetico e adrenalinico. Ma ben venga anche Never Alone, tutto incentrato non solo su una storia, bensì su un intero popolo. Un popolo che esiste davvero, ma del quale si sa molto poco. In questo Never Alone non solo è un esperimento, è proprio una novità assoluta nel mercato videoludico. Il fine educativo è palese e sembra quasi di trovarsi di fronte ad un documentario interattivo. Certo, la storia non è realistica, ma ciò che si vede non è campato per aria. C’è solo un’arma ed è la bola, o kilamitautit in lingua inupiat. Ma è una delle armi più comuni per il popolo eschimese, utilizzata per la cattura degli uccelli, soprattutto durante le battute di caccia alla balena. Ci sono più nemici, partendo dal nanuk, l’orso polare che rappresenta una delle più grandi minacce per i cacciatori che si spingono tra i ghiacci. L’aurora boreale nelle leggende inupiat è in realtà un insieme di spiriti di bambini che giocano nel cielo e così è rappresentata in Never Alone. Ma il più grande e temibile nemico è il freddo, così come lo è nella realtà. Il clima è tutt’altro che amico e solo una pelle di caribù ben lavorata riesce nell’intento di resistere ad un clima così poco ospitale. C’è tutto ciò che rappresenta un popolo: le leggende, le usanze, le abitudini. C’è una piccola protagonista che non demorde di fronte alle difficoltà, come non demorde un popolo che vive in terre desolate nelle quali la caccia e la pesca sono l’unica fonte di sostentamento. C’è la volpe artica che accompagna la bambina nel suo viaggio. Ci sono le insidie dei ghiacci, le balene e molto altro. Tutto è al posto giusto, spiegato nel dettaglio all’interno di brevi spezzoni filmati sbloccabili e attivabili nel corso del gioco e unendoli insieme si compone un vero e proprio documentario sugli inupiat. Anche questo deve e dovrà essere il videogioco, non solo uno svago, non solo un divertimento, ma anche un modo per apprendere un messaggio più o meno profondo. E ora vado a bermi un kuukpiak (per i profani della lingua, un caffè).
Unknown
Scritto da Unknown

2 commenti:

  1. Bell'articolo, che invoglia a provare il prodotto. Meno male che non l'ho comprato il mese scorso... :-) Sicuramente sarà uno dei prossimi titoli che proverò. Da come lo descrivi mi pare il titolo giusto per "disintossicarmi" dalle decine di ore spese in esperienze faticose come Dying Light ed Ori e mi sembra di capire che si avvicini decisamente di più alla mia, tanto contestata, idea di indie. Ah, sappi che al solo leggere della tua seconda run ad Hotline Miami rabbrividisco... :-)

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  2. Interessante, ma resto frenato dalle incertezze del gameplay. Ottimo il tono educativo/documentaristico, ma resta pur sempre videogioco. D'altra parte, altri titoli sono riusciti bene nel doppio intento, vedi Valiant Hearts.

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