Siamo a Gennaio e come di consueto è tempo per tutti i critici di settore di stilare le proprie classifiche dei migliori giochi dell’anno appena concluso, liste che un po’ ovunque sia sui siti italici sia sulle principali testate internazioni hanno incluso diversi titoli indipendenti. Di questo abbiamo parlato estensivamente nell’ultima puntata di Gaming Effect, quindi non intendo riaprire il discorso ora. Piuttosto, sono stato incuriosito da alcuni di quei titoli indie da molti ritenuti meritevoli di un posto in Top 10 ma da me ahimè mancati durante il 2014, per mancanza di tempo o sovrabbondanza di scelta, oppure semplice diffidenza. Poco importa. Tre sono quelli che ho incluso nel mio backlog di cui uno proprio in cima alla lista. Sarà stata la voglia di Wii U o, meglio, la curiosità di giocare tale titolo sul paddone, che il primo titolo completato in questo nuovo anno è stato Shovel Knight.
Opera prima dei californiani di Yatch Club Games, realizzata grazie ad un generoso crowdfunding (ottenuti 311k$ contro i 75k$ richiesti), si tratta di uno slide platform bidimensionale sviluppato su di un motore simil 8-bit, nella più genuina tradizione anni ’80. Giusto per chiarire, con “slide platform” intendo che il livello di gioco non ha uno scorrimento continuo, bensì a schermate fisse della dimensione dello schermo. Quindi, tutto quel che si muove a schermo, protagonista escluso, non può transitare nella schermata precedente o successiva. Semmai, tornare a ritroso innesta il respawn dei nemici, seppur non più tanto remunerativi quanto al loro primo abbattimento.
Comunque, dicevo, questo è un gioco degli anni ’80. Cioè, è stato prodotto l’anno scorso, ma non consiste nel mero scimmiottare i canoni dell’intrattenimento videoludico nell’era dei Paninari e del Drive In, come tanti altri titoli indie fanno più per necessità che sincera ispirazione, bensì appare ed è prodotto reale di quei canoni e vincoli imposti ai tempi del NES (o del Master System, ci mancherebbe). Ad esempio, escludendo grafica e tecnica in generale, non presenta alcun vero tutorial: via subito nel pieno dell’azione, con uno schema di comandi semplice ed immediato, dove l’imparare consiste nel comprendere architetture platformiche progressivamente più complesse, dove salti e attacchi sono assoggettati all’ormai quasi abbandonata regola del “pixel perfect”.
Ma in cosa consiste quindi il gioco? Un attimo, ci arrivo. Il protagonista è un cavaliere, con tutta la sua bella mise ferrosa: classicissimo, molto Ghost’n Goblins, forse un po’ più pacioccoso, ma mai in mutande. Il suo nome è, pensa un po’, Shovel Knight, e credo che il nome derivi (che coincidenza) proprio dall’arma bianca di cui è dotato: non la classica, inflazionata spada, bensì un bel badile, luccicante ed utile non solo ad offendere ma anche a spalare mucchi di terra (sai mai con la crisi del lavoro…). Il raggio dell’azione offensiva, almeno inizialmente, è piuttosto limitato, ma compensato dalla possibilità di usare il fido strumento per rimbalzare sulla testa dei nemici senza mancare di infliggere loro danno (a patto che non siano in posizione difensiva). Tornando al concetto di pixel-perfect di cui sopra, chiave del successo in ogni scontro è la combinazione precisa di posizionamento e tempismo, da adattarsi di volta in volta alla tipologia di nemico.
Chiaramente il prode cavaliere non dispone del solo strumento edil-agricolo, ma può sfruttare un sistema di crescita delle stat di salute e magia, acquisto di potenziamenti ed artefatti magici. Ad esser sinceri, quest’ultimi, pur offrendo metodi di attacco e/o difesa ulteriori con una loro specifica efficacia e, di conseguenza, arricchendo il gameplay, difficilmente diventano fondamentali all’avanzamento, se non solo due o tre di essi. Vuoi perché, appunto, quei tre, di cui due acquisibili piuttosto presto, sono sufficientemente versatili per superare la stra-maggioranza delle situazioni, vuoi anche perché il gioco pur non potendo definirsi facile non spinge mai all’estremo le capacità del giocatore, se non per quelle poche tecniche basilari tra cui, soprattutto, il salto-sul-badile citato poc’anzi.
La progressione tra i livelli non è lineare, ma basata su di una mappa navigabile a moderato piacimento, divise in più macro-zone progressivamente sbloccabili. Ogni livello ben si distingue dagli altri per ambientazione, scelte cromatiche, peculiarità platformiche e dei nemici, oltre, chiaramente, agli immancabili, super-tradizionali, pattern-based boss. Sono proprio loro, i cattivoni di fine livello, a rappresentano il fulcro dell’esperienza ludica made in Yatch Club Games: da osservare, studiare e quindi superare con profonda soddisfazione, ma solo dopo aver meritatamente raggiunto la chance di affrontarli lasciandovi alle spalle stage sempre piuttosto lunghi e, col progredire nella storia, decisamente impegnativi. Non è possibile salvare all’interno di un livello ma solo uscendone vittoriosi oppure, per quelli bonus, rinunciando agli ultimi progressi e tornando alla mappa. Certo ci sono multipli checkpoint in ognuno di essi, ma si tratta di punti di respawn non permanenti, nel senso che se si spegne la console occorrerà poi ripeterlo per intero.
Interessante e a mia memoria inedita, è la possibilità di distruggere i checkpoint, rappresentati da luminose sfere di cristallo, per ottenere gemme preziose in cambio, appunto, della funzione stessa del checkpoint in questione: roba da giocatori coraggiosi, pazienti e soprattutto esperti. Inoltre, c’è da dire che ad ogni morte parte variabile del bottino accumulato viene “droppato” in forma di sacchettini fluttuanti attorno al punto esatto del decesso: al giocatore la chance di raggiungerli e riacciuffarli, sfida non semplice anche perché in caso di nuova dipartita anticipata quei sacchettini spariscono per sempre ed un nuovo addebito sul CC eseguito al fine di riempire altri sacchettini fluttuanti. Diabolico ma allo stesso tempo efficace nello spingere il giocatore ad una run del livello quanto più “pulita”. Poi, tra uno e l’altro, ci sono stage di intermezzo interattivi creati allo scopo di ricompensare il giocatore, in uno stile che ricorda, per quanto mi riguarda, gli accampamenti di Golden Axe.
Ci sono poi passaggi segreti, villaggi abitati da NPC con cui scambiare brevi battute o da cui acquistare beni, pesci-mela e pure collectibles in forma di spartiti. Questi, se consegnati ad un simpatico e generoso menestrello, sbloccano le tracce della colonna sonora, per un ascolto on-demand. Trattasi infatti di un’ottima compilation di chip-tunes, fedele agli stilemi del decennio a cui si ispira e di qualità sopra la media di riferimento. Le firme, per altro, sono di livello. Peccato che, sempre in my humble opinion, non si allinei completamente al tema medieval-eroico-fantasy raffigurato in immagini. Alcune tracce le avrei viste meglio su di un Mega Man, per dire.
Ma ciò non inficia comunque la qualità generale del prodotto, che rimane solidamente buona, anche in termini di longevità (per il genere di riferimento), e rigiocabilità (anche in modalità new game plus).
Però.. però manca di quel pizzico di originalità in più che l’avrebbe reso memorabile, o quanto meno davvero meritevole di essere un top ten assoluto. Si lascia giocare, ti chiede di portarlo a termine, ti premia con un senso di soddisfazione finale. Ma non entra nel cuore. L’idea, lo stile, la cura, quello sì. Ma l’esperienza nel suo complesso non è di quelle da ricordare negli anni a venire, se non per il messaggio che lascia. Shovel Knight non sarà forse un capolavoro, pur nella sua piena godibilità, ma sicuramente dimostra che certe idee di game design, seppur datate, quando ben realizzate possono fare a meno di cotillon ipertecnologici. Il gioco è prima cosa gameplay, ieri come oggi.
Questo gioco rappresenta lo stereotipo dell'indie che non capisco fino in fondo... Non tanto per la mia nota prevenzione per la pixel art moderna, quanto perché, davvero, fatico veramente a comprendere come ci sia bisogno nell'Anno Domini 2015 di titoli che in tutto e per tutto potrebbero essere stati rilasciati sul mercato 20 anni fa. Tanto vale buttarsi sul retrogaming no?
RispondiEliminaPerò, ripeto, è un mio limite personale, o, meglio, il tutto rientra nel più classico dei discorsi: ho poco tempo e preferisco dedicarlo a titoli più moderni. Chissà mai che prima o poi arrivi anche per me il momento di farmi prendere da un titolo di questo tipo.
Un nuovo Ghosts'n Goblins, per dire, anche con grafica dell'epoca, lo giocherei più che volentieri... ;-)
Comunque considera sempre due cose:
RispondiElimina- certe tipologie di gameplay, sempre godibili, danno il meglio in "schemi tecnici" non più attualissimi
- low-tech vuol dire anche low-budget, quindi maggior accessibilità e possibilità per piccoli, talentuosi sviluppatori
E comunque con l'ultima frase ti sei risposto da solo :)
Io invece sono molto tentato dall'acquisto. Di certo non su console casalinga, ma sarà quasi certamente il secondo acquisto (il primo è Majora's Mask 3D) su New Nintendo 3DS.
RispondiEliminaIo ho deciso di risparmiare la somma per la "nuova" consolina Nintendo in favore di HoloLens :)
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