Sono giocatore di
vecchia data, passato dagli arcade degli anni ’80 fino ai giorni nostri attraverso
tutte le generazioni di console, PC e quant’altro servisse a giocare il meglio
dell’offerta globale. E sono sempre stato restio ad abbandonare un titolo
iniziato e giocato per oltre due ore (escludendo quel remoto periodo della pirateria
facile... lo ammetto e mi cospargo di cenere). Da sempre, fin dalla loro nascita, sono stato amante dei survival horror (a proposito, chi mi vende un Resident Evil 1 prima
edizione – non Platinum - per PSX ? :) ) e mai riluttante ai giochi che offrissero un
minimo di sfida. Per dirne un paio, finivo Black Tiger in sala con un solo
gettone senza trucchetti di sorta, e quest’estate mi sollazzavo a trestellare
completamente Super Mario 3D World. Non è difficile dite? Provate a completare
gli ultimi 3 livelli dell’ultimo mondo bonus e mi direte. E comunque sto
facendo lo stesso con DKC Tropical Freeze, quindi posso a ragion veduta
considerarmi un giocatore che gode della sfida. Non quella del gioco competitivo
online, quella non fa per me, sportivi a parte. Ma la sfida così come pensata,
implementata, raffinata dai creatori del gioco per la campagna in solitaria,
quella sì mi avvince. Questa la
premessa per parlarvi dell’unico gioco che negli ultimi anni è stato in grado (e non è un complimento) di far vacillare i miei credo, soprattutto quello
relativo all’abbandono di quanto iniziato e inizialmente piaciuto. Dicevo di
essere amante dei survival horror in genere, ma soprattutto di quelli dell’epoca
PSX/PS2 coi vari capitoli di Resident Evil e Silent Hill: grandi atmosfere,
scontri da evitare quanto più possibile, munizioni col contagocce. Quindi, dopo
aver sbrodolato su quel riuscitissimo esperimento di marketing virale chiamato
P.T., potevo esimermi dal giocare l’ultima opera di Shinji Mikami nello
splendore delle console next-gen? Certo che no! Ma che fatica gente! Vi spiego…
The Evil Within è
un bel gioco. È davvero un degno successore di Resident Evil (soprattuto del
quarto capitolo). È ricco di atmosfera, artisticamente è pregno di stile, e fa
pure la sua porca figura su PS4, a patto di accettare le bande nere applicate,
ufficialmente, per dare un formato più cinematografico, ma in realtà utili a
ridurre il carico computazionale e ad aiutare un frame-rate solo discreto. Ma va
bene così, non siamo né al Nurburgring né in un arena di space marines dotati
di jet pack. Qui la missione è sopravvivenza, non carneficina, stealth e fuga ogni
volta che si può e scontri al minimo, quanto più ragionati siano possibili, a
preservare le poche munizioni, la cagionevole salute e l’ancor più precaria
forma fisica (intesa come durata dello sprint). Anche perché dal punto di vista
dinamico il protagonista, la visuale e una certa legnosità della telecamera non
sempre sono adatti ad affrontare le situazioni proposte, soprattutto nei contesti più intimi e ravvicinati. Ma si tratta di survival horror, è Mikami, ed è
bellissimo nonostante sia il 2014. Dico davvero. Anche se (un altro) la trama
si sviluppa in maniera troppo criptica e allucinata, ma è il survival horror
Jappo, e ci sta. E anche se (l’ultimo), alla prima run e senza una
pianificazione coadiuvata da una buon walkthrough il gioco costringe ad una fruizione
al livello di difficoltà più basso (dei due inizialmente disponibili, settando
come default quello superiore), e lo fa subdolamente, senza giocare ad armi
pari con l’utilizzatore me medesimo. Questa cosa, però (e non c’è survival horror o
Mikami che tenga), mi fa proprio inca@@are. Perché un conto è costringermi a
razionare munizioni e upgrade, a studiare ogni centimetro dell’ambiente per
trovare soluzioni alternative e rifornimenti, a farmi ripetere sezioni di gioco
più volte perché l’approccio o l’esecuzione è stata sbagliata, accettando pure qualche
“Continue?” dovuto alla legnosità dei controlli. Ma un altro (conto) è
predisporre picchi di difficoltà disonesti, dove il boss di turno non offre
alcuna indicazione sull’efficacia dei miei attacchi e, di contro, dispensa
instant kill come se non ci fosse un domani, e soprattutto come se il
protagonista fosse munito di quel già citato jetpack o di chissà quali capacità
evasive. Certo a furia di dai e dai ce la si può pure fare a superarne uno, ma
quando poi ne capitano due a distanza ravvicinata senza nel
mentre offrire adeguati rifornimenti, la cosa si fa esasperante.
Nel mio caso ciò
è avvenuto alla fine del decimo capitolo (di quindici): tre sessioni di gioco
per un totale di quasi sei ore a provare e riprovare il medesimo scontro,
imprecando come se conoscessi tutte le religioni del mondo e consumando etti di
tabacco ad effetto terapeutico. Alla fine ho ceduto, menù opzioni e difficoltà
abbassata (poi chiaramente non più innalzabile) e forzata ripetizione dell’intero
capitolo. Non che le cose siano poi cambiate chissà quanto, ma per lo meno ho
potuto notare una certa generosità nel dispensare scorte e, credo, una limitata
resistenza dei nemici/boss, utile al superamento di quel maledetto capitolo
dopo solo un paio di nuovi tentativi. Poi, da lì in avanti, nessun’altra vetta
di sclero, e devo dire di aver portato a termine il gioco con una certa
compiaciuta soddisfazione.
Però ora vorrei
che il signor Mikami ed il suo team mi spiegassero che diavolo è successo
durante lo sviluppo di quella stramaledetta sezione di gioco. È stata una scelta consapevole? Davvero? Perché allora ai recensori destinatari delle
copie review è stato suggerito di giocare a livello “easy”, mentre il gioco
propone di default il livello superiore? Sa tanto di grossolana pezza dell’ultimo
minuto, a cui però sarebbe dovuta susseguire una vera e propria correzione
software. Ma non è capitato, non ancora almeno. E quindi forse davvero è stato
fatto di proposito… oppure sono io ad aver perso capacità videoludiche nel
corso degli anni? Beh, mi sarò letto forse una decina di review e nessuna
evidenzia lo stesso problema, tranne una, pure piuttosto autorevole e
credibile, e che, guarda caso, punta il dito proprio sullo stesso passaggio qui
criticato. Che sia l’unico recensore, tra quelli di cui ho letto l’articolo, ad
aver ignorato l’esplicito consiglio di Bathesda? Chi lo sa, gli altri nove non
hanno specificato…
Per quanto riguarda la mia personale esperienza, ritengo che lo sviluppatore
abbia deliberatamente ignorato il valore del mio tempo, sottoponendomi una
sfida eccessivamente impari. Ed è un gran peccato, perché The Evil Within resta
opera di buona fattura che certo non spegne il mio desiderio per un nuovo
capitolo. Però, caro Shinji, ricorda: “Errare humanum est, perseverare autem
diabolicum”. E non mi importa che tu includa “Evil” nel titolo di ogni tuo gioco. Non ti
giustifica, ok?