Non più tardi di un mese fa,
proprio su queste stesse pagine, parlai di come negli ultimi mesi stessi
attraversando uno di quei periodi di stanca tipici della mia carriera di
giocatore, momenti più o meno lunghi duranti i quali la passione per il videogioco
si affievolisce, forse perché non solleticata a dovere dal titolo giusto al
momento giusto. Bene, con l’arrivo fra le mura domestiche di Dying Light penso
di aver trovato la medicina giusta al mio malanno. Un malanno che, è bene
dirlo, si era addirittura aggravato con la deludente esperienza di The Order,
titolo talmente guidato e scarsamente interattivo da risultare noioso e claustrofobico
per un amante degli open world come me. Avevo quindi bisogno di tornare a
prendere aria, e quella della città di Harran, anche se pregna di malsani odori
di cadaveri putrefatti, si è rivelata un vero e proprio toccasana per i miei
polmoni videoludici. In realtà tenevo d’occhio il titolo Techland già dai tempi
del suo annuncio, un po’ per una particolare predilezione per il tema zombie,
un po’ per quella strizzata d’occhio al tanto amato Mirror’s Edge che faceva
apparire quantomeno prematura la bollatura di semplice “Dead Island con salti”
che buona parte della stampa aveva frettolosamente apposto sul titolo degli
sviluppatori polacchi. Beh, fortunatamente ci avevo visto giusto.
Dying Light è, infatti, un survival horror con i controfiocchi. Dalla progettazione degli ambienti alla
narrazione, dal gameplay alla splendida realizzazione tecnica (per giunta
ottenuta con un motore grafico proprietario, il Chrome Engine 6), fino ad
arrivare al tanto temuto parkour in prima persona, tutto è realizzato in
maniera pressoché impeccabile (unico punto negativo il character desing e
alcuni modelli poligonali degli infetti sicuramente migliorabili). Ma,
soprattutto, Dying Light è un titolo più fresco ed originale di quanto possa di
primo acchito apparire. Preso singolarmente, nessuno degli elementi cardine del
titolo Techland brilla infatti per originalità: di titoli in prima persona ne
abbiamo giocati a bizzeffe, di open-world manco a parlarne, e le metropoli
infestate dagli zombie sono uno dei set forse più inflazionati degli ultimi
anni. Anche il parkour, seppur con sfaccettature e gradi differenti, è ormai
piuttosto diffuso (il già citato Mirror’s Edge su tutti, ma anche titoli come Assassin’s
Creed e Shadow of Mordor fanno delle acrobazie tra elementi architettonici uno
dei loro elementi cardine).
Eppure, pur ricalcando più o meno
sfacciatamente gli stilemi tracciati da diversi concorrenti, il titolo Techland
riesce a combinarli in maniera fresca, inedita e, soprattutto, dinamica. Dying
Light è infatti un gioco d’Azione con la A maiuscola, dove la presenza nell’ambiente
di diversi tipi di zombie influenza pesantemente il modo in cui il giocatore
interagisce con l’ambiente, spingendolo a sfruttare lo spazio e i diversi
strumenti che il gioco mette a sua disposizione in maniera creativa. Ad Harran,
pur essendo costretti a muoversi a piedi, difficilmente si percorre due volte
la stessa strada per andare nello stesso posto. Il concetto di open world
stesso è stato estremizzato in maniera logica e naturale: è possibile salire ed
arrampicarsi su qualsiasi cosa a portata di salto o (più avanti) di rampino,
oppure si può semplicemente cercare di raggiungere il proprio obbiettivo correndo
per strada o nuotando. E’ possibile farsi largo tra i mangiacarne (così sono
chiamati gli zombie ad Harran) con la forza bruta, o cercare di schivarli il
più possibile mettendo a frutto la propria agilità e la propria astuzia, magari
sparigliando con un bel lancio di petardi quel maledetto gruppo di infetti che
si è ammucchiato proprio davanti a quell’edificio dove si deve entrare. Quando
si è stanchi di uno stile di gioco se ne può adottare tranquillamente un altro.
Il gameplay di Dying Light, così come il suo protagonista, si rivela duttile e
malleabile, come un bel vasetto di plastilina pronta ad essere plasmata come
meglio aggrada al giocatore. In perfetto stile action GDR, più si utilizzano le
maniere forti più si sbloccano abilità di offesa. Più ci si dimostra atletici
più ci si potrà prodigare in movenze degne di un acrobata. E si tratta di
abilità perfettamente contestualizzate, quasi sempre capaci di rinfrescare il
gameplay e l’approccio dell’utente al gioco stesso, spingendolo a nuovi azzardi
con un senso di progresso che raramente appare pretestuoso e fine a sé stesso.
Ma libertà non vuol dire
tranquillità. Ad Harran l’ansia è una costante che viene raggiunta con
naturalezza, non con assurdi limiti di tempo alla Dead Rising, né tantomeno con
picchi di difficoltà ingiusti e bastardi alla Bloodborne. Il giocatore non è
mai tranquillo perché beh… in una città invasa dagli zombie è naturale che sia
così, e questa cosa, seppur possa apparire banale, è la base per la credibilità
dell’esperienza ludica e per l’immersività del giocatore nel contesto di gioco.
Perché le missioni, anche quelle secondarie, spesso si aprono ad intrecci e
situazioni impreviste. Perché al progredire delle proprie abilità fa da
contraltare la comparsa di creature sempre più aberranti ed offensive, talvolta
capaci di raggiungerlo anche là su quel tetto dove poco prima si credeva al
sicuro.
Ma è quando arriva la notte che il cerchio si chiude e lo splendido lavoro svolto da Techland si rivela in tutta la sua agghiacciante efficacia. La difficoltà derivante dalla scarsa visibilità è accentuata dalla incredibile ferocia notturna dei mangiacarne, le cui aggressività ed acutezza contribuiscono ancor di più ad accrescere il già elevato clima di tensione. Ma anche qui (salvo rare occasioni) massima libertà: i giocatori più temerari possono sfidare le insidie delle tenebre ricavandone doppi punti abilità, gli altri possono tranquillamente rintanarsi in uno dei tanti rifugi disponibili ed aspettare il mattino con una bella e rinfrancante dormita.
E quando tutto sembra volgere alla fine, Dying Light stupisce ancora, con una seconda ambientazione che per conformazione strutturale impone al giocatore un ennesimo cambio di approccio per garantirsi la sopravvivenza.
Ma è quando arriva la notte che il cerchio si chiude e lo splendido lavoro svolto da Techland si rivela in tutta la sua agghiacciante efficacia. La difficoltà derivante dalla scarsa visibilità è accentuata dalla incredibile ferocia notturna dei mangiacarne, le cui aggressività ed acutezza contribuiscono ancor di più ad accrescere il già elevato clima di tensione. Ma anche qui (salvo rare occasioni) massima libertà: i giocatori più temerari possono sfidare le insidie delle tenebre ricavandone doppi punti abilità, gli altri possono tranquillamente rintanarsi in uno dei tanti rifugi disponibili ed aspettare il mattino con una bella e rinfrancante dormita.
E quando tutto sembra volgere alla fine, Dying Light stupisce ancora, con una seconda ambientazione che per conformazione strutturale impone al giocatore un ennesimo cambio di approccio per garantirsi la sopravvivenza.
Raramente mi capita di parlare di
un singolo gioco su queste pagine. Preferisco parlare di argomenti più
generici, cercare di portare qualche stimolo di discussione costruttiva, disquisire sulle numerose contraddizioni del mercato videoludico moderno. Il fatto che per Dying Light
abbia fatto un raro strappo alla regola è un’ulteriore testimonianza di quanto
il titolo Techland abbia toccato le mie corde. Nel mio piccolo, quindi, non
posso fare altro che consigliarvi di abbandonare i preconcetti e di farvi
trascinare nelle splendide viscere di Harran. Sono convinto che non ne
rimarrete delusi…
Ho amato il primo Dead Island nonostante i suoi difetti. Da quanto leggo Dying Light ne è evoluzione diretta, iper potenziata e molto ben confezionata. Inserito senza dubbio nella lista dei prossimi titoli che DEVO giocare, subito dopo Ori e Bloodborne... Tu intanto tienimelo da parte!! :)
RispondiEliminaIl tuo articolo trasuda amore per il gioco. Ci voleva un amore corrisposto per farti tornare la voglia che ultimamente ti era mancata. Sicuramente è un titolo che prima o poi proverò: ho troppo amato Mirror's Edge e l'accoppiata zombie-parkour la trovo interessante. Rimane però un titolo free roaming e ultimamente ne ho giocati un po' troppi, quindi per il momento continuerò a concentrarmi su titoli indipendenti o dalla durata più contenuta. Insomma, in questo momento voglio esperienze che si concludano in dieci ore.
RispondiEliminaSe cerchi un gioco che dura 10 ore, sicuramente Dying Light non è il prodotto che fa per te... Anche se devo dire che le famose "boring missions" di cui parlano alcuni sedicenti recensori non le ho trovate affatto noiose come in altri titoli open world. Anzi, come dicevo nell'articolo, spesso si sviluppano in modo imprevedibile e finiscono per collegarsi con accadimenti futuri e per svelare dettagli aggiuntivi sulla trama. Credo piuttosto che quello delle side-quest allunga brodo sia un problema (se così si può chiamare) insito nella struttura di questo tipo di giochi, che ormai la gente utilizza come prevalente giustificazione per incensare o distruggere il free roaming di turno. Per dirti, alla lunga ci sono molti meno tempi morti qui che in Watch Dogs e GTA... In Dying Light le distanze sono molto più raccolte e girare per la città è davvero sempre un piacere. Non so... Resto convinto che se non ci fosse stato scritto Techland sulla confezione sicuramente la media di questo gioco avrebbe raggiunto una cifra ben più elevata del 75 circa su cui si assesta ad oggi su Metacritic...
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